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Trieste, 29 ottobre, ottavo giorno del festival

Se penso al calcio, il primo volto che mi viene in mente è quello di Maradona. Il perché si riassume nell'immagine della Napoli del campione argentino, invasa da una miriade di bandiere azzurre. Il sogno poetico di una città come Napoli che vince lo scudetto contro Milan, Juventus ed Inter, fattosi realtà. Pelé. Pelé era di un altro mondo, che non mi appartiene.

Ma secondo i messicani del festival - anche i registi parlano di calcio - e ovviamente secondo Ronaldo Duque, brasiliano soprannominato affettuosamente "L'imperatore", era Pelè il migliore. L'argentino partenopeo non era male, ma il brasiliano era tutta un'altra cosa. Chiaramente, per la cronaca, gli argentini sono d'accordo con me nel sostenere il loro compatriota.

Tutta questa inaspettata sviolinata calcistica arriva semplicemente perché gli astri hanno deciso che nelle ultime ore si parlasse di Maradona. E mi rilassa pensare agli artisti come persone comuni, che sognano il goal al novantesimo della finale di una coppa del mondo. E, ancora di più, mi piace vederli velatamente nervosi, in attesa del giudizio della giuria - voci di corridoio mormorano già nomi papabili, io ho i miei preferiti, ma vedremo.

Alle 20.00 di stasera, dunque, sapremo il nome del vincitore dell'edizione numero 20 del festival del cinema latinoamericano di Trieste. Io ho già un'idea della cerimonia che vorrei vedere: sarebbe meraviglioso se il regista che vince salisse sul palco commosso, a un soffio dalle lacrime e poi iniziasse a ringraziare le persone che lo hanno sostenuto durante il festival, invitandole sul palcoscenico. Inizierebbe una lista infinita di nomi, dai colleghi, allo staff, ai camerieri, ai proiezionisti, al pubblico. Tutti, ma proprio tutti si troverebbero a condividere la scena sotto i riflettori. A quel punto, davanti ad una sala vuota, comincerebbero a cantare una canzone latinoamericana - propongo Por una cabeza , ma mi accontenterei anche di un'altra.

Credo che un'immagine di questo tipo sarebbe una degna conclusione di una settimana vissuta a contatto con questi artisti, immersi nei loro canti, nelle loro risate, nella loro voglia di vivere latina.

 

Trieste, 28 ottobre, settimo giorno del festival

Trieste trasforma, immancabilmente, le sensazioni in una malinconia profonda, pulita, avvolgente. La sobrietà austro-ungarica dei palazzi e il mare triestino sono ben distanti dalla saudage brasiliana, qui si respira semplicemente una tristezza per un passato purtroppo lontano, con sereno distacco. E con lontano si può intendere anche ieri. Così si inizia già adesso a odorare la fine del festival. È vero, manca la premiazione, ancora non si è svolta la rituale festa che celebra l'arrivederci del carrozzone della mostra del cinema, ma un non detto scivola tra i presenti, un tacito assenso sul dovere di non ricordare che è venerdì e che tra due giorni questo microcosmo saluterà le rive dell'Adriatico.

La stanchezza si fa sentire. Anche perché le notti guadagnano, ogni giorno, un'ora in più, rubando scampoli di tempo alle mattine. Detto in un'altra maniera, ciò significa che ieri sera, ad esempio, un nutrito gruppo di latinoamericani ed affini - tra cui inserisco anche gli italiani come me - hanno scorrazzato per le vie di Trieste. Le hanno riempite di sana, latina e irriverente freschezza latinoamericana. Ed io ho capito perché venti anni fa Rodrigo Diaz scelse Trieste per un festival di cinema latinoamericano: perché tra Trieste e i latini c'è un abisso di differenze culturali - anche di similitudini, ovviamente: si pensi, ad esempio, alle dimensioni dell'emigrazione da questa regione, in epoche non lontane, verso l'altra sponda dell'oceano Atlantico. Il confronto tra questa città e il continente latino è un'interessante esperimento. E, comunque, vedere piazza dell'Unità, opera che deve molto, evidentemente, all'Austria, attraversata da un rumoroso nugolo di messicani, argentini, cileni e "latinofili" è un'esperienza che consiglio.

Chiudo con l'ennesimo omaggio - non ne posso fare a meno - ad una delle molte figure che affollano il Miela: Sabatino. Sabatino è un giornalista argentino che, con un'invidiabile devozione, si applica nel suo lavoro, sfornando quotidianamente delle preziose interviste. Pur apprezzando il suo castigliano, il mio omaggio non prende in considerazione i suoi articoli, ma il momento in cui arriva alla mattina al teatro: saluta tutti, singolarmente, sorride e si mette a scrivere. E ci si sente sereni. Ecco, credo che sia venuto a Trieste anche per dispensare queste pillole silenziose di pace.

 

Trieste, 27 ottobre, sesto giorno del festival

In questi giorni, sono diventato una specie di statua simile a quelle che si vedono in giro per Trieste raffiguranti James Joyce - il paragone si limita, chiaramente, alla condizione di "statua". Molte delle persone che passano per il bar del Miela - soprattutto nelle mattinate che proseguono più oziose e pigre del resto della giornata - si fermano e scambiano due parole. Tra le altre cose, l'appuntamento quotidiano immancabile è rappresentato dall'incontro con i protagonisti dell'articolo apparso il giorno precedente. Non è ancora successo, ma pensavo che sarebbe possibile ricevere delle lamentele rispetto a leggeri, ma significativi, scostamenti dalla realtà nel passaggio a foglio elettronico. E mi sono tranquillizzato, ricordando a me stesso che qui parlo del festival, lo racconto, non lo descrivo - o perlomeno non è obbligatorio un taglio pedissequamente realista in questa rubrica.

Il pranzo del festival, in particolar modo, offre, quotidianamente, uno spaccato da cui attingo regolarmente per i miei articoli. Adoro vedere come si formino e disfino i gruppetti di persone. Il tavolo dei giurati, ad esempio, è una costante al ristorante, lo si guarda con una leggera riverenza, cercando di tradurre le risate in possibili indicazioni per la premiazione. Ma ovviamente le supposizioni ricavate sono inservibili.

Tornando al Melia, è incredibile che ancora non abbia citato il passaggio per il corridoio, che attraversa il bar, di Costanza e "le sue". Costanza è la coordinatrice organizzativa del festival, "le sue" sono Monica e Sara - mi perdoneranno, spero, se le nomino così. Mi perdoneranno, di nuovo, se l'immagine che associo a loro è quella della camminata delle protagoniste di una fiction televisiva statunitense - Sex And The City , per la precisione. Il funzionamento del festival deve molto a queste tre ragazze - le uniche, se non sbaglio, a cenare al teatro per non perdere tempo.

Costanza, in particolare, parla in spagnolo con un chiaro accento argentino, che tradisce una passione incontenibile per il continente latinoamericano - d'altra parte, non potrebbe essere altrimenti, visto l'impegno.

Volevo parlare di altri compagni di viaggio, ma lo spazio è finito e poi è galante terminare con un omaggio a tre signore.

 

Trieste, 26 ottobre, quinto giorno del festival

Secondo Domenico il mondo si divide in due grandi categorie: i cacciatori e i sognatori. E lui, evidentemente, è un cacciatore, uno di quelli che amano tendere agguati alle persone: si appostano dietro ad enormi alberi e sanno aspettare per ore, giorni, anni; poi lasciano scivolare una frase in mezzo ad un discorso e attendono che sia l'altro ad esporsi per colpire.

Domenico si occupa di portare gli ospiti del festival dall'aeroporto al teatro. E accanto a lui siede spesso Carlos, un argentino. I due rappresentano il tipico esempio di convivenza italo-latinoamericana al festival. Stanno insieme in silenzio aspettando il viaggio seguente, sulle panche del corridoio del Miela. Il particolare che rende la coppia speciale è che le conversazioni - brevi, fugaci e essenziali - si muovono tra l'argentino e il veneziano. E li immagino in autostrada nel furgone che porta i registi al Miela, persi in silenzi infiniti, per niente imbarazzati. E ogni tanto, sono sicuro, Domenico sorride da solo e lascia nell'aria una frase in un veneziano orgoglioso - certo rimane il dubbio che Carlos in realtà non capisca, ma questa è una questione su cui non so formulare ipotesi.

Oltre ai cacciatori, come dice Domenico, ci sono anche i sognatori. Le prede insomma. Pensavo che, in fondo, si può essere sia sognatori che cacciatori. E mi piace fantasticare su ogni persona che entra in un cinema vedendola come un sognatore. D'altra parte non c'è niente di più fragile e indifeso di uno spettatore. Una preda quindi, ma non solo; infatti come mi ha suggerito Frank Diamand al cinema bisogna entrarci con gli occhi aperti e il cuore disponibile ad accettare il nuovo. Che poi è la stessa predisposizione dell'aspirante amante.

 

Trieste, 25 ottobre, quarto giorno del festival

Continuo a curiosare per il festival. Sono andato, ad esempio, a chiacchierare con Paolo, il proiezionista. In quel luogo affascinante che è la sala di proiezione, abbiamo parlato mentre saltellava di macchina in macchina, di pellicola in pellicola.

Chi è stato anche solo una volta nella sua vita in un posto così sa perfettamente che per comunicare bisogna quasi urlare, facendo a gara con gli ingranaggi che trasformano magicamente dei microscopici fotogrammi in Cinema .

Paolo mi ha raccontato della passione che lo accompagna nel suo lavoro, nata da un amore infinito per il cinema - passione che lo ha portato a restaurare per due mesi una copia unica di un film muto trovato in uno scantinato di Trieste. L'ho lasciato là su mentre montava l'ennesimo rullo di un film di Cazals. E nel mio immaginario del festival, lui è sempre lì, in quella stanzetta, ad inventare un fascio luminoso che emoziona; tanto che quando lo vedo per i corridoi del Miela mi sembra un'altra persona, come se si fosse tolto cilindro e mantello.

Il festival funziona grazie alla magia di Paolo, ma anche al lavoro meno silenzioso, ma altrettanto invisibile di Francesca, una delle interpreti. Talmente invisibile che ho dovuto chiedere ad un gruppetto di amiche sedute al bar del Miela chi di loro fosse realmente l'interprete.

Francesca mi ha raccontato che è la sua seconda volta al festival di Trieste. Mi ha parlato dell'emozione della diretta, della consapevolezza di essere "sulle orecchie di tutti". A volte le tocca improvvisare, ma non ne sembra particolarmente preoccupata, sorride e mi confida che sogna di andare a tradurre il finlandese. Che dire, buona fortuna Francesca.

Ovviamente il festival continua. Come continua il bombardamento di film, dalla mattina alla sera - i giurati sono riconoscibili senza bisogno di cartelli: i loro occhi tradiscono ore e ore passate davanti al grande schermo.

E c'è un minuscolo episodio, che forse non tutti i visitatori hanno notato. Ieri veniva proiettato Araguaya , un film del regista brasiliano Ronaldo Duque. Ronaldo lo conoscono ormai tutti qui al festival - e credo che anche una buona parte di Trieste abbia avuto il piacere della sua compagnia.

Quando ha presentato nel suo spagnolo dal ritmo "brasileiro" la pellicola, non è riuscito a nascondere l'emozione. E non tanto - o non solo - l'emozione di una prima, ma quella di trovarsi di fronte ad un gruppo di calabresi, venuti apposta dalle loro terre per vedere sullo schermo una storia che narra un episodio della guerriglia brasiliana, dove si trovò a combattere - e perire - un loro famigliare.

I film si potrebbero vedere anche in altri cinema, uno separato dall'altro, forse addirittura a casa, in dvd, ma l'abbraccio tra Ronaldo Duque e la signora calabrese si vede solo qui a Trieste.

 

Trieste, 24 ottobre, terzo giorno del festival

Il mio spazio, in questo teatro, è un tavolino di vetro, all'interno del mondo disegnato dal bar Miela. L'osservazione del festival trova in questo angolo un punto privilegiato da dove sbirciare. Le ragioni sono piuttosto palesi: i visitatori, i registi, lo staff, le cameriere, il direttore, tutti passano di qui, si fermano e chiacchierano. Ritagliano un microcosmo dove una legge non detta vuole che vi sia serenità - a dispetto anche dei temi che vengono trattati sullo schermo, dove il sociale ha un'importanza evidente. E poi, per avere ogni cosa sotto controllo, sono stati apposti dei televisori sopra il bar che riproducono il film proiettato in sala.

Trieste continua ad essere grigia. Sembra voler ricoprire con una cappa il teatro, il mare, le montagne, la piazza dell'Unità, la città intera insomma. E si ha la sensazione di boccheggiare in un acquario. In un sontuoso e magnifico acquario.

Degni di nota sono anche i volti dei registi. Come quello di Frank Diamand che ieri ha presentato al festival i suoi documentari sul Cile del 1988. Frank è olandese - e non si fa fatica a crederlo vedendolo -, in Salvador ha perso alcuni compatrioti, amici, colleghi di lavoro. Così quel sorriso che distribuisce continuamente a chi gli è vicino assume un altro significato. Quella fessura che rimane degli occhi nasconde e rinchiude dietro alle pupille un mondo lontano - nel tempo, nello spazio, poco importa.

E mi rende sereno rimanere qui al mio tavolino di vetro, rubando un sorriso da Frank, protetto alle spalle dalle montagne umide di Trieste.

 

Trieste, 23 ottobre, secondo giorno del festival

È strano iniziare un reportage di un festival dal secondo giorno, ma le inaugurazioni si prendono sempre il loro tempo e finiscono troppo tardi per poter tirare le somme - e perché il cinema consenta di continuare a scrivere nel suo bar, obbligando i dipendenti ad un forzato straordinario.

Il teatro Miela di Trieste accoglie l'ospite di sorpresa, facendolo scivolare in un corridoio che non si aspetta, tra foto dal lontano Cile e un arredamento elegantemente contemporaneo. E poi lo invita ad entrare in sala, dove un signore scolpito nel legno siede in eterno su una sedia - forse perché nessuno dica mai che a vedere i film non c'era proprio nessuno.

Trieste in generale, in questi giorni, ti riceve come te lo immagini: tra nebbie e pioggerelline sottili, girata verso il mare, umida e silenziosa.

Il festival. Il festival è iniziato con il suo entusiasta ed energico direttore, Rodrigo Diaz. Da solo sul palco ha snocciolato le varie perle di cui si dona quest'anno la mostra del cinema latinoamericano, in formato XX° edizione. Chi conosce Rodrigo non rimane sorpreso nel vederlo là su scevro d'ogni frivolezza o concessione all'estetica dello spettacolo, convinto come è che a fare un festival di cinema ci siano i film, il resto importa relativamente. Sembra una banalità, ma non lo è per nulla: un concentrato di cultura audiovisiva latinoamericana accompagnerà i visitatori - stordendoli - fino a domenica 30 ottobre. Se a volte respireranno, sarà perché qualcuno si è distratto.

Un ultima nota: un festival ritaglia sempre un mondo, separandolo dal resto dell'umanità, sospendendolo. Qui? Qui si rimane sospesi tra le frasi in castigliano dei latinoamericani, che accarezzano i volti dei presenti dal palco, sullo schermo, al bar, nei corridoi e dietro le quinte - dove diventa inaspettatamente imperativo.

Anush Hamzehian

Anush Hamzehian lavora come autore televisivo a Milano, dove scrive programmi per Studio Universal, Sky e Mtv. È per la prima volta al festival di Trieste.

Un intruso al festival del cinema latinoamericano di Trieste